Alcuni anni fa la mia famiglia ha subito un lutto gravissimo: è mancato il dottor Enrico Micheli, nostro psicologo di riferimento, grande professionista, grande e stupenda persona dal punto di vista umano.
Un paio di anni fa la psicomotricista Cesarina Xaiz, sua collega e co-autrice in molti libri, e soprattutto sua compagna di vita, ha deciso di riprendere in mano una bozza di libro al quale lei e il dottor Micheli avevano iniziato insieme a lavorare.
Ha chiesto a me, così come ad altre famiglie che seguivano, di scrivere alcune riflessioni sul tema.
Da tanto non ci pensavo più, ma recentemente un’amica mi ha ricordato questo libro e quel brano.
Mi era piaciuto scriverlo, è stato una sorta di rielaborazione del lutto.
Mi è piaciuto, rileggerlo. Ci sono spunti di ulteriore riflessione che posso fare con voi. La vita si evolve sempre, per fortuna, e tante cose di oggi sono diverse da quelle di solo due anni fa.
Desidero condividerlo con voi per contribuire, nel mio piccolo, ad un semplice ma significativo omaggio ad una persona indimenticabile.
“Cosa si aspetta inizialmente una famiglia da un terapista, da uno psicologo, da un neuropsichiatra, da un insegnante di sostegno, da un logopedista, quando va a chiedere una consulenza, una diagnosi o un parere sul proprio figlio autistico?
Che gli dica che è stato tutto uno sbaglio, ovviamente. Che il figlio in questione è solo momentaneamente stordito, disturbato, ma che tornerà “normale”, come tutti gli altri bambini.
Credo che ogni genitore abbia pensato o pensi questo. All’inizio. Poi, col tempo, con realismo, con rassegnazione, si capisce, si accetta, si cresce, ci si fortifica.
E si riflette, si ragiona. Si capisce cosa ci fa stare bene, cosa ci aiuta, cosa ci sostiene.
All’inizio si provano 10, 100, 1000 specialisti diversi. Ognuno dei quali ti fa ricominciare dall’inizio, da come hai scoperto che c’era qualcosa che non andava..
Poi ci si ferma. Si sceglie. Si crede, si ha fiducia in una, due, tre persone.
Che diventano il nostro punto di riferimento.
Che non possono essere mercenari. O insensibili.
Sono fortemente convinta che una persona che voglia diventare un “operatore” con persone autistiche debba avere, come prerequisiti, alcune qualità ed alcune priorità : deve avere una ricca umanità interiore e soprattutto deve sentire un interesse autentico per la persona che ha di fronte e per la sua famiglia.
Il “gioco” dell’autismo si fonda sul miglioramento della qualità di vita e sulle aspettative della famiglia che ha una persona autistica al suo interno.
La differenza che passa tra una madre che uccide il figlio autistico ed una che vive una discreta, a volte serena vita familiare, dipende da molte variabili. Una di queste è senza dubbio rappresentata dagli operatori che ha di fronte, “operatori” inteso come quell’insieme di professionisti che, a vario titolo e con ruoli diversi, costituiscono la “rete di protezione” della persona autistica.
A volte, spesso purtroppo, capita di trovarsi di fronte una persona preparata dal punto di vista professionale ma fredda e distaccata, che tratta nostro figlio come un pacchettino, noi come un numero, che non capisce che il “caso” da seguire è una “persona” e che non può considerare la persona “staccata” dalla sua famiglia ma deve al contrario trovare il modo di unire i tasselli familiari, di ristabilire gli equilibri, di dare fiducia e speranza in una terapia , in un’attività , in una scuola, in un progetto. E, si sa, di progetto in progetto si arriva ad avere il coraggio per idee più ambiziose e per una vita migliore.”
Secondo me l’operatore non può essere ambizioso. Mi spiego: “deve” essere ambizioso ma non nel significato normale che diamo a questo termine. Non l’ambizione che porta a riconoscimenti immediatamente valutabili e che possano essere mostrati con vanità ai colleghi. Il lavoro di chi opera con persone autistiche può essere ed è spesso frustrante. Fino a quando si lavora con i bambini piccoli, e quanto più i bambini sono piccoli, tanto più il lavoro è soddisfacente: i piccoli sono (sempre relativamente al disturbo, ovviamente) più malleabili, più disposti ad essere plasmati rispetto alle ultime terapie arrivate dagli Stati Uniti o da altre parti del mondo, le famiglie hanno preso coscienza del problema ma hanno le energie mentali e le aspettative per credere che, quanto più intenso e ampio sarà il lavoro tanto più il bambino si avvicinerà alla normalità . Quando poi questi sogni di normalità cominciano ad esaurirsi, quando i progressi sono più lenti e di certo non corrispondenti al lavoro profuso, lì si vede il vero operatore, che non si lascia scoraggiare dalla lentezza dei passi in avanti ma che continua con serenità a seguire l’intera famiglia del suo assistito; che adatta il suo lavoro alle esigenze della persona, senza voli pindarici e senza paura di non avere risultati tangibili da esporre. Perché la sua ambizione più grande non è dimostrare ad altri di essere il migliore ma semplicemente riuscire a dare un contributo determinante al benessere, allo “stare bene”, di alcune persone. Il vero operatore è un religioso laico, una persona che diventa “di famiglia” senza essere “di famiglia”.
Tutti i genitori prima o poi si rendono conto, con rassegnazione, che un bambino, un ragazzo, potrà sicuramente migliorare, che lavorando tantissimo con lui si potrà ottenere il massimo dalle sue potenzialità , ma che non sarà mai “normale”. Quando si ha un bambino “normale” si hanno tantissime persone con le quali confrontarsi. Si va ai giardinetti o fuori dalla scuola, si incontrano tante mamme, si espone il proprio problema e si ascoltano le esperienze e quindi le “soluzioni ai problemi” che fanno parte di un infinito bagaglio culturale e sociale. Il bambino non dorme di notte? Ecco pronte decine e decine di accorgimenti, raccolti e tramandati oralmente di generazione in generazione o studiati durante la gravidanza da future mamme piene di libri su come educare un bambino.
Un bambino autistico, invece, non ha “uguali”. Non ha un bagaglio di esperienze concrete da tramandare da nonna a nipote. Ogni bambino autistico è diverso dall’altro e non è possibile creare quella “piccola società ” che tanto ci conforta e supporta quando abbiamo difficoltà “normali” con i bambini “normali”.
Ci si sente soli. E allora si sente l’esigenza profonda di incontrare qualcuno che ci aiuti a portare il peso enorme che abbiamo sulle spalle, fatto di incognite, di responsabilità , di impegno, di sacrificio, di fatica, di ansia per il futuro.
Con la “rete” di protezione per il nostro bambino creiamo in realtà anche una “società artificiale” a sostituto di una “società naturale” che difficilmente potrà esserci; è molto più facile parlare del proprio bambino con l’operatore che lavora con lui piuttosto che con la vicina di casa, con una nonna o uno zio che, loro malgrado, non hanno spesso gli elementi per “capire”. Per capire la preoccupazione che pervade qualsiasi genitore di un bambino autistico e al tempo stesso la gioia per qualche suo piccolo, all’apparenza insignificante progresso.
Come si fa a spiegare a chiunque (che non abbia la nostra stessa esperienza) quanto sia faticoso e pieno di ansia il vivere con un figlio autistico? Un operatore ti può capire. Certo, non ti può capire “emotivamente”, non saprà mai cosa vuole dire veramente, ma almeno può capirti “intellettualmente”. Perché ha “studiato” l’autismo. (àˆ la stessa differenza che passa tra studiare la Cappella Sistina o andarci di persona e sentirne il profumo, nella bella immagine del film “Will Hunting”)
Nessuno specialista , operatore, logopedista o altro guarirà mai una persona autistica. Un discreto operatore riuscirà a tirar fuori il meglio delle potenzialità del soggetto; un eccellente operatore aiuterà il soggetto a migliorare e contemporaneamente si prenderà cura globalmente della qualità di vita della famiglia intera. Alla fin fine, ma di questo me ne sono resa conto negli anni, è realmente questo quello che più conta: iniziare il cammino con qualcuno che, pur non facendo parte integrante della tua famiglia, si occupi insieme a te dei progetti, delle ambizioni, dei traguardi, delle speranze, dei sogni che hai il diritto di riprendere ad avere e che ti aiuti a realizzarli risolvendo insieme, di volta in volta, le difficoltà che spesso sembrano insormontabili e che ti impediscono in alcuni momenti di andare avanti.
La prima volta che io e la mia famiglia al completo siamo andati ad Agordo, Luca, il mio bambino autistico, era veramente piccolo.
Avevo letto i libri del Dr. Micheli ed ero stata affascinata non solo dalla sua competenza ma anche dall’importanza che lui dava alla collaborazione fra le varie componenti della “rete”, anche, quindi, alla famiglia.
Era quello di cui avevo bisogno.
Potrei raccontare tante cose: ricordo, ad esempio, che già al telefono ero rimasta colpita dal fatto che al laboratorio psicoeducativo ci avessero avvisato di tenerci liberi per l’intera mattinata. Il tempo è fondamentale: è meraviglioso avere la sensazione di potere parlare ad uno specialista in maniera “esauriente”, di potergli chiedere tutto quello che si ritiene in quel momento importante, di essere ascoltati nei dettagli senza la sensazione che l’orologio incomba.
Anche l’aspetto logistico conta moltissimo: il laboratorio è inserito in un contesto “familiare”: ha l’atmosfera di una casa, mai disgiunta, comunque, dal rigore professionale.
Ad Agordo si lavora tutti, genitori, bambini, operatori; si devono tenere a mente tante cose, da chiedere, da capire, da ricordare, da esprimere; ma il tutto viene fatto nella dolcezza di un tempo che sembra fermarsi per scorrere lento e tranquillo, nel calore di una tazza di the, nella stupenda sensazione di avere di fronte professionisti che si prendono cura di te, di tuo marito e dell’altro tuo figlio, oltre che, ovviamente, del tuo bambino autistico.
La cosa più importante credo sia sempre stata, per me e mio marito, la sensazione di non dover essere sempre noi, da soli, ad avere la responsabilità di scegliere.
Purtroppo spesso succede che si passi da un estremo all’altro: o la famiglia viene esclusa da qualsiasi ragionamento e le viene imposto dall’alto un pacchetto di regole da seguire e terapie da applicare, o, al contrario, la si coinvolge ma la si lascia poi sola nella responsabilità delle scelte.
Molte persone, immagino, hanno purtroppo provato l’esperienza di un chirurgo che, in maniera fredda e distaccata, ma ovviamente “professionale” (inteso in senso ironico), ti dice che tu o un tuo familiare avete un tumore. Molti hanno sperimentato la sensazione di angoscia, ansia, paura, terrore, mancanza di punti di riferimento, solitudine. Ci si sente soli, incredibilmente, disperatamente. Alcuni, i più fortunati, hanno avuto invece la fortuna di incontrare qualcuno, che non è un tuo amico, non è “di famiglia”, ma che si rende conto del tuo stato e si ferma ad ascoltare il tuo silenzio, cerca di sorreggerti in un percorso nuovo e pieno di incognite e, a volte, alla tua domanda, risponde dicendo cosa farebbe lui in una situazione simile.
Ecco, se qualcuno ha provato o proverà mai una cosa simile, potrà rendersi conto di cosa prova un genitore tutti i giorni della sua vita e di quando egli abbia bisogno di aiuto. Come il chirurgo non può guarire l’ammalato ma può sostenere lui e la sua famiglia e rendere un periodo meno devastante,così l’operatore non può guarire il bambino autistico ma può rendere il percorso meno faticoso, a volte può persino dare la gioia e il calore della condivisione.
Io darei, quindi, un nuovo significato alla parola “professionale”. Ci aggiungerei “cuore, umanità , spirito, anima”. Ogni operatore sa sempre, comunque, quando non oltrepassare quel filo invisibile che ci permette di non essere travolti dal nostro coinvolgimento. Un po’ come il bravo insegnante che collabora con la famiglia di un suo alunno che si droga ma sa quando e come fermarsi al punto giusto.
Ricorderò per tutta la vita lo sguardo del dr. Micheli, nell’aprile di due anni fa, alla fine della nostra ultima visita: avevamo fatto tutto quello che si era stabilito di fare (parlato, osservato Luca, esposto i nostri progetti e le nostre aspettative, chiesto e ricevuto consigli) e lui ad un certo punto ha guardato Luca: nei suoi occhi c’erano affetto, orgoglio, desiderio, curiosità e felicità all’idea di esserci, di seguire insieme la nuova avventura di quel piccolino (la prima elementare). Non lo dimenticherò mai.
Mio figlio Nicola, che quell’estate aveva quasi dieci anni, mi ha visto piangere disperatamente alla notizia della sua scomparsa e ancora piangere sommessamente nei giorni e nei mesi successivi; un giorno mi ha chiesto, con l’angoscia di un bambino che ha bisogno di essere tranquillizzato: “mamma, come faremo adesso per curare Luca?”. Io, immediatamente, d’istinto, l’ho portato alla libreria dove tengo i libri che ha scritto, le relazioni che mi ha negli anni mandato, gli appunti, tutto. “Vedi, Nicola, il dr. Micheli c’è ancora, in tutte le cose che ha scritto, nelle sue idee, nel suo spirito. Anche tu, quando sarai grande, leggerai i suoi libri e tanta gente li ha già letti, li leggerà e seguirà i suoi consigli.”
Lui è ancora con noi. Ci manca moltissimo ed è per questo che questi due anni sono stati, per me, due anni di lutto. Vero, autentico, profondo.
Mi sento in colpa, quando penso questo. Perché probabilmente non ho il diritto di pensarlo. Non sono “di famiglia”. O forse si.
“Sinceramente, credo che … passi avanti, e importanti, se ne sono fatti, specialmente nelle condizioni di vita e nelle abilità e possibilità di far fronte al problema da parte delle famiglie, dei genitori e dei fratelli. Oggi i genitori scoprono prima che il figlio ha le difficoltà di sviluppo dello Spettro Autistico, prima sanno cosa si può fare per aiutarlo e aiutarsi, prima scoprono la possibilità di non essere soli con il loro problema. E questo non è poco.”
Enrico Micheli
Elisabetta Tonini